Rileggiamo John Dewey - A cura di Rosalba Pipitone
John Dewey e la società americana si alimentano l’uno
dell’altra. Nel filosofo la società americana trova il suo più fedele
rispecchiamento. Risulterebbe falsato il pensiero di John Dewey senza un
adeguato riferimento a quella società del suo tempo e si rischierebbe di non
avere un'idea appropriata di quest’ultima se non si utilizzassero opportunamente
le coordinate filosofiche dello stesso. Infatti, più di ogni altro, J. Dewey
appare maggiormente capace di penetrare e di esprimere le caratteristiche
fondamentali della cultura e della società americana:
- Fede nella democrazia e nell’individualismo nonché nella scienza e nella tecnologia
- Mentalità pratica che al contempo teorica
- Fiducia nel progresso
- Senso della concretezza
- Riconoscimento del valore rivoluzionario del liberalismo
Basti ricordare la connessione tra il pensiero di Dewey e il New Deal roosveeltiano, essendo, tra le
altre cose, portatori di uno stesso progetto socio-politico: una programmazione
democratica per uno Stato veramente democratico che si contrapponesse, da una
parte, allo stato dittatoriale e, dall’altra,
a quello Stato liberale, i cui
parametri erano quelli del vecchio liberalismo e del vecchio individualismo o, meglio,
di coloro i quali, al tempo di J. Dewey, avrebbero voluto ridurre lo Stato a funzione di interessi di parte degli
individui economicamente più forti, a danno dell’intera collettività: i
grandi finanzieri e industriali che, a dire il vero, non soltanto al tempo di J.
Dewey, ma anche nel nostro tempo più prossimo, vorrebbero trasformare lo Stato
da comunità politica in una grande Società per Azioni.
Questo sembra essere significativo per l’attuale situazione politica italiana,
europea e mondiale, caratterizzata da una parte, dalla sconcertante pretesa di
alcuni operatori economici -con il supporto di alcuni intellettuali pseudo
liberali- di gestire direttamente la cosa pubblica, riducendola a mezzo di
copertura dei loro specifici interessi privati; dall’altra parte, dall’altrettanto
sconcertante volontà bellica che serpeggia in maniera quanto mai diabolica tra
elementi di alcuni politici guerrafondai. J. Dewey, relativamente alla guerra,
ha scritto delle pagine quanto mai significative, ne ricordiamo qualcuna:
“La guerra nelle condizioni attuali –scriveva nel 1931 in Libertà e Cultura- costringe i Paesi, anche quelli dichiaratamente
più democratici, a divenire autoritari e totalitari, come la guerra mondiale
del 1914-1918 portò al totalitarismo fascista, nell’Italia e nella Germania non
democratiche, e al totalitarismo bolscevico nella non democratica Russia e
promosse la reazione politica, economica e intellettuale nel nostro Paese.
La necessità di trasformare l’interdipendenza materiale in morale umana
interdipendenza, fa parte del problema democratico: eppure si dice ancora che
la guerra sia la via della salvezza per i Paesi democratici”.
Più avanti, continua:
“Il conflitto non si combatte con le armi, si svolge al di dentro delle nostre
istituzioni, estendendo l’applicazione dei metodi democratici, metodi di
consultazione, di espressione, di negoziazione, di comunicazione, di
cooperazione, di intelligenza, nell’intento di fare della nostra politica, un
utile progressiva manifestazione delle idee democratiche: il ricorso alla forza
militare è un primo sicuro segno che stiamo rinunciando alla lotta per il modo
di vivere democratico e che il vecchio mondo ha vinto moralmente come
geograficamente, riuscendo a imporsi i suoi ideali e i suoi metodi. Se vi è una
confusione verso cui l’esperienza umana porta inequivocabilmente, essa è che i
fini democratici esigono metodi democratici per la loro realizzazione”.
J. Dewey ha insegnato, e insegna ancora, almeno per chi ha chiaro il concetto
di democrazia e di Stato come universo organizzato di una
comunità nazionale a difesa di tutti e di ognuno, che non bisogna favorire
la formazione di trusts, non solo per
ovvi motivi di giustizia sociale ma anche perché, per funzionare in modo
sicuro, vi è il bisogno di controllare talvolta, come nel caso italiano, di
gestire direttamente la società politica, segnando perciò stesso la morte della
democrazia.
Oggi, in Italia e nel mondo, se si leggesse un po’ di più John Dewey, da parte
di tutti, conservatori e progressisti, si porrebbero su un terreno più solido e
più sicuro le fondamenta di una politica, perché gli uni sentirebbero tutta
l’assurdità della loro pretesa di subordinare la collettività agli interessi
dei grandi gruppi finanziari e industriali, se non addirittura del singolo, e
gli altri avrebbero idee più chiare su come progettare una società democratica,
secondo un meccanismo messo in moto da sette mitologiche populiste ma retto da
categorie scientifiche essendo la scienza, il sapere democratico per antonomasia,
un modello che esige, per sua natura, la libera circolazione delle idee e non
la loro strumentalizzazione classista.
Conoscere J. Dewey significherebbe avere gli strumenti teorici più idonei per
liberare la nostra democrazia da ogni possibile rischio di asfissia o
inaridimento, perché crescerebbe il raggio di intervento della pubblica
autorità, si farebbe del liberalismo
un fattore di crescita sociale e culturale per tutti e non per pochi.
Attraverso, per esempio, la spinta propulsiva della dinamica salariale e
l’utilizzazione dei profitti per una razionale dinamica produttiva. Tale forma
di liberalismo, in un universo democratico, si concilierebbe e incoraggerebbe
il cooperativismo senza alcun ostacolo.